“Specchio specchio delle…”
Personale, Galleria La Spirale, Prato 01-13 novembre 1996
Francesco Crosato
“Davanti ai quadri di Egle”
Vasi dispersi
sparsi sulle tele
persi,
una piccola esile
candela
di luce
(forse speranza…)
una lampada allungata
che cerca, in cerca di chissà cosa…
una veste bagnata
crocefissa
appesa per il collo
un orologio che batte il tempo, ma poco,
tenue sempre uguale
un po’ come il nostro piccolo
quotidiano
male,
un busto lungo lungo
a mò di fungo
bianco
che osserva con cipiglio
l’arte
del passato,
…o forse è solo l’Uomo delle Regole
Accigliato,
e ciclamini
sul terrazzo?…
una cariatide
(si dicono così le donne…)
Di Modì!
13 settembre 1996
“Specchio specchio delle…”: con queste parole l’artista ha voluto intitolare la mostra: e già in questo titolo c’è tutta l’urgenza di chiedere a se stessa: chi sono?…
Egle non chiede allo “specchio magico” conferma della propria avvenenza –come nella famosa fiaba-, ma chiede allo specchio di rivelarle la propria più intima, genuina e profonda, identità.
E questo specchio lo scorgiamo, tra le molte tele, confuso tra i vasi, candelabri, busti, cariatidi, lampade… a riflettere gli oggetti che quotidianamente circondano la nostra pittrice, che pare riconoscersi in ognuno di essi, e ad ognuno di essi pare chiedere –con essi pare si chieda- : chi sono?…
E tutte queste cose, solo apparentemente inanimate –come un mosaico immaginario-, convergono a poco a poco su quello specchio magico, a tratteggiare il suo singolare ritratto, il suo singolare autoritratto.
La casa di Egle, dunque, ma soprattutto la rappresentazione mentale di questo ambiente: un “interno”, che si espande, dilaga, inglobando via via –magicamente, appunto- anche oggetti esterni, desiderati, ercepiti come “vicini” (i busti, ad esempio, sfiorati ogni giorno all’Accademia…).
È dunque la vita dell’artista che noi vediamo rappresentata scorrendo queste tele, solo formalmente separate tra loro, in realtà così intimamente vicine, sconfinanti una nell’altra; noi vediamo scorrere la storia di Egle, i suoi sentimenti, anche i suoi quotidiani e prosaici malumori: tutto è diventato materia per un’unica grande –anche se contenutisticamente minimale- narrazione visiva.
È “minimalismo” profondo, alto, quello di Egle Piaser –se vogliamo tracciare un parallelismo con la narrazione letteraria-, che coglie e descrive il particolare per parlare d’altro, per suggerire cose più “grandi”, non è un minimalismo asfittico che muore sul suo segno e con il suo segno, muto testimone del nichilismo che, nel migliore dei casi, è convinto di respirare; non è –peggio- il minimalismo fine a se stesso di chi non sa più trovare motivazione e senso alla propria arte: rimane in Egle –e si avverte- la pofonda necessità del suo creare artistico.
E con queste che le appartengono, con queste immagine di è, poi, la pittrice finisce per scherzare, giocare.
Ecco l’opera finalmente completata –così ci piace immaginare Egle quasi alla fine della sua fatica-, i fogli sparsi sul pavimento, con questa loro verità familiare, talvolta inquietante, con queste loro forme che emergono da questi scenari quasi per contrasto cromatico, segnate dall’urgenza espressiva…, ed ecco che su tutto ciò plana o si scaglia un commento, uno sfregio. Sono parole spesso ironiche, in altre occasioni più coinvolte, in altre ancora nervose, quasi stizzite, insofferenti: sono le parole scritte sui fogli, quei segni che sono anch’essi pittura, che stanno lì a commentare, a scherzare, a snobbare, magari, quanto è stato appena creato; parole colte al volo da giornali qualsiasi, versi di poesie (ma a me non ape non miele soffro e desidero…), frasi di gente comune (signora o signorina?), piazzate ironicamente sopra qualche oggetto, parole in lingua, in dialetto (a sprussa, a resenta…), frasi che scorrono, come il pensiero di un’artista che guarda la propria immagine riflessa per accarezzarla irriderla, prenderla in giro, talvolta anche rifiutarla.
E riconosciamo Egle bambina, in quel piccolo corpetto, in quella gonna minuta, in quell’enorme fiocco; Egle studente, in quella lunga lampada del suo lungo studio; Egle casalinga, crocefissa, in quella bellissima veste-sindone stesa ad asciugare o in quella noiosa serie di noiosi mestoli appesi ordinatamente alla parete della cucina; indoviniamo ancora Egle, forse, -un Egle che sopporta incredibili quanto immaginari pesi- in quella formidabile cariatide di Modì, reinventata, ritornata oggetto da rappresentare, dopo esser stata opera da contemplare, grazie a quello strano gioco di specchi che l’arte magicamente permette; c’è ancora Egle, infine –forse-, in quei vasi esplodenti di rabbia, o in quei pesci rossi che girano come in un vortice all’interno della loro prigione di vetro.
Questo dunque, il senso, mi pare, della nuova e importante tappa della ricerca artistica cui Egle Piaser è giunta: una sosta per cercare risposte su di sé, sulla propria esistenza, sul suo futuro di donna e –ciò che qui più ci interessa- di artista.
Anche in questa mostra Egle rivela la sua grande intelligenza creativa, il suo sicuro istinto artistico ed estetico: questa capacità di vedere le cose in profondità, di percorrere caparbiamente la strada della sua personale e originale ricerca, senza farsi fuorviare da mode e cenacoli correntizi; Egle matura con l’arte, attraverso la pittura si conosce, cambia e si trasforma: un’artista naturale, insomma;…e che altro dovrebbe essere un’artista?
Questo suo lasciarsi guidare dal proprio istinto anche pittorico, non da una definita progettualità; questo suo operare scelte anche artistiche vivendo, sperimentando, per sistemarle, poi, a lavoro ultimato o in corso, dando loro un nome, scoprendo nel loro stesso farsi un filo coerente; un mondo solo apparentemente senza centro –come questi suoi oggetti-, che trova la sua unità, il suo equilibrio e il suo senso, in questa dimensione mentale, in questa architettura estetica, in questa scena dove si mescolano finzione e realtà, dove le contraddizioni si compongono e trovano soluzioni o comunque spazio ed equilibrio.
L’io di Egle, dunque, finisce per entrare nel lavoro, per farvi parte fino in fondo, confondendosi con le proprie opere, salvandosi prodigiosamente dal narcisismo attraverso quel suo guizzo ironico, quell’ironia sempre così presente a evitare i toni drammatici non appena questi sembrano affiorare.
La pittrice Egle Piaser, in conclusione, vuole e sa raccontarsi fino in fondo attraverso la propria arte, ma è troppo intelligente per prendersi tropo sul serio, ed è troppo seria, come artista, per fare opere fin troppo serie, quel che si dice: seriose.